(*) Mukashi, mukashi, omukashi…

Copertina - Coro di Funghi di Goto Hiromi

Non esiste un tempo preciso in cui le storie decidono di accadere, ma a volte si immagina abbiano un consapevole arbitrio
Non c’è uno spazio predefinito in cui queste decidono di prendere una forma riconoscibile.

Tuttavia, in queste pagine, si materializzano presenze scolpite con la cura armoniosa di un’artista d’oltreoceano, tre generazioni di donne abbracciate in un raffinato quadro di Klimt.

Una madre, una figlia, una nipote. Migliaia di frammenti di inquietudine, di ricerca, di speranza, intessuti in sottile lamine di ghiaccio.
La distanza dal proprio paese natale si può affrontare in molti modi, ognuno possiede la sua mappa personale. Attraversare più di un intero continente per approdare in una terra straniera, ti accolga con  garbo o meno, crearsi una nuova vita, intessere nuove relazione, una parvenza di radici… un’impresa non trascurabile.

In questo scenario, Keiko, una donna giovane, con una figlia, un marito ed una madre alla quale badare, può decidere di ricominciare da capo, di rinunciare a qualunque sapore del passato. Imparare una nuova lingua non significa forzatamente rinunciare alla propria, ma fa vedere tutto da una nuova prospettiva, più semplice. Cucinare giapponese non può essere ben visto in questo sperduto angolo di mondo, non può davvero agevolare la tanto bramata accettazione, ma poi mio marito mangia di nascosto nostalgicamente pasta d’alghe quando nessuno lo vede. È diventato così taciturno ormai. Mia figlia dovrà mimetizzarsi tra la prole nostrana, anche a costo di tingere i suoi bei cappelli d’ossidiana per una recita scolastica.Non si è di certo mai vista una Alice nel Paese delle Meraviglie mora, non trovate? Gli occhi a mandorla sotto i riflettori saranno un lieve dettaglio, un particolare…
Si può fingere che un legame non sia impegnativo. È possibile ingannare la propria coscienza e mascherarsi da donna qualunque, da madre severa, da figlia scontenta. L’inganno si mostra appena al di là del bagliore costantemente celato nei suoi tristi occhi cupi.

“Cambiare nome è una cosa semplice. Servono solo inchiostro e un pezzo di carta. Ma un intero ramo dell’albero genealogico è spazzato via quando un cognome viene abbandonato e sostituito con un altro. Tutte quelle madri e figlie e madri e figlie divorate dai nomi degli uomini.”

Accanto a Keiko un’altra donna, più anziana. Si tratta di Naoe, sua madre. Per quasi tutto il romanzo ci si riferisce a lei con un generico “obachan” (nonnina). Lei decide semplicemente di non arrendersi. È questa mancata rinuncia crea più di un’inquietudine. Un caos costante. Adagiata sulla sua poltrona accanto alla finestra, la sua lingua continua a consacrare parole, attizzare pensieri nascosti, ad esprimere quegli ideogrammi che fanno parte del suo essere naturale. Una lotta rumorosa e dai sapori umidi come i funghi appena raccolti. Un’insolita battaglia per la sopravvivenza della propria verità.

“Il mio sonno è un luogo sgombro da sogni. Chi era quello sciocco filosofo cinese? Quello che si addormentò osservando una farfalla e sognò di essere una farfalla che sognava di essere un filosofo. Quando poi si svegliò non sapeva più se era un filosofo o una farfalla. Che assurdità. Questo bisogno di fare distinzioni. Che diamine, era entrambi, naturalmente. I pensieri lasciano un segno sulla pelle delicata e un sapore può persistere per giorni. Le parole mi ruzzolano fuori dalla bocca e cambiano forma e dimensione. Si fanno crescere braccia e gambe e strisciano nella polvere ai miei piedi, con dita curiose raccolgono falene rinsecchite e mi tirano la gamba dei pantaloni. Io le nutro di storie che loro masticano e masticano, rumorosamente. Diventano più grandi e più forti, finché non escono dalla porta per vagabondare su questa terra.”

Muriel disegna la sua vita altalenando tra questi due abissi. Doppio nome (la nonna la chiama Murasaki − Viola), singolo approccio alla vita che le è stata data in dono. Porta con se le sue origini come un trofeo scolorito, ascolta incantata le favole che la sua dolce obachan le confessa in quel suo idioma così incomprensibile ma così avvolgente e mangia con lei quei cibi dai sapori seducenti che rapiscono le sue percezioni senza consenso. Lo studio del giapponese le è proibito, ma ogni goccia d’oriente le si posa sulle labbra con una dolcezza pari ad un bacio notturno.

“Raccontaci dei piedi” dicono. “Tua nonna doveva fasciarsi i piedi, da piccola?” Veramente in Giappone non c’è mai stata questa usanza, ma qualcuno continua a diffondere il mito. Sempre la stessa storia. I piedi fasciati. La deformità. Il rituale dell’hari kari. Veramente sarebbe harakiri, ma lo chiamassero pure Cara Chiri o Cala Chili, per quel che mi importa. Non è per essere acidi. Ti invitano da qualche parte per parlare. Per tenere una conferenza. Su quello che sia. Tutti in giacca e cravatta e in abito sa sera. Sei l’unica persona non bianca che non fa il cameriere, lì in mezzo. Non è per essere acidi. E’ una constatazione. La gente parla di razza qui, di etnia là. E’ facile formulare teorie, se le parole vengono da qualcuno che ha poca o nessuna traccia di pigmentazione. Se ti chiami Hank e hai tre ragazzini biondi, nessuno ti verrà incontro da Safeway e ti chiederà, indicandoti un qualche tipo di ortaggio: “Cos’è quello?”

In queste circostanze le tre vite si rincorrono come ombre. La corsa si rallenta e si affanna in un ciclico stringersi e sciogliersi a ripetizione, sogno e allerta procedono in un cammino vorticoso ed esasperante. Se davvero la saggezza si trova nel cuore delle cose, Murasaki è colei che merita ogni encomio. Attraverso le onde del passato e l’incedere flessuoso del futuro, ella intraprende un viaggio che trascina tutte e tre le protagoniste in un perdersi alla cerca di un nuovo giorno. Non è lei a deciderlo, è vero, tuttavia si sente il suo potere, la sua voce carica di fierezza.
Lei raccoglie i fili sperduti lungo il cammino.

“Ci sono salamandre anche in Giappone” commenti, dall’angolo più lontano del futon. Sei sdraiato sulla schiena con le gambe poggiate a V contro le due pareti d’angolo.
Io sono al centro, a pancia in giù. A giocherellare con le palline del tessuto, con l’indice.
“Possiamo uscire, sai. Possiamo fare qualcos’altro. Non è che siamo intrappolati qui o cose del genere” dici. “Puoi smettere quando vuoi”.
“No”. Con un movimento veloce mi metto supina, così da evitare di giocare con le palline di tessuto. Fisso la ragnatela polverosa, in alto, che ondeggia leggera, sospesa sul soffitto. “Io non posso smettere quando voglio. Ma tu puoi smettere di ascoltare”.
Sospiri. Tiri giù i piedi dal muro e rotoli verso il centro del futon. Ci abbracciamo, proteggendoci a vicenda. Ci stringiamo l’uno contro l’altra, come ladri, come mendicanti. Come amanti.
“No” dici “neanch’io riesco a smettere di ascoltare”.

Questo è l’esordio narrativo della giovane scrittrice nippo−canadese Hiromi Goto. Immigrata in Canada con la sua famiglia a poco più di 3 anni, vive su di sé tutti gli effetti di un’immigrazione. Con “Coro di Funghi” ha vinto nel 1995 il Commonwealth Prize for Best First Book e nel 2000 il Grant MacEwan College Book. Inoltre è stata, sempre nel 1995 co-vincitrice del Canada-Japan Book Award.
Una scrittrice poco conosciuta qui in Italia, ma che credo riservi molte sorprese. Il suo stile coinvolge tutte le percezioni dell’animo e del corpo. Il suo linguaggio è stato definito “un organismo vivente” capace di ripercorrere la memoria in modo vivo e spontaneo ricorrendo al risveglio di ogni sensazione dimenticata. Un pellegrinaggio attraverso i profumi e i sapori, sottolineanti spesso da preziosi intarsi di antiche leggende giapponesi che donano allo scritto un tocco di raffinato passato.
Unico punto dolente (forse) è la prepotente presenza di frasi in lingua giapponese non tradotte. Vista da molti come una scelta provocatoria della scrittrice, non bisogna sottovalutare il suo valore all’interno della storia. Come giustamente fa notare la traduttrice dell’opera, Cristiana De Sanctis, questa scelta “se da un lato evidenzia come il linguaggio costituisca una barriera, dall’altro diventa per Goto strumento di riappropriazione di affettività e di senso”.
Il non comprendere fino in fondo alcuni dialoghi, alcune espressioni, lancia la nostra attenzione proprio dove l’autrice vuole portarla. Ascoltare oltre le parole pronunciate, sentire oltre il linguaggio corporeo non tradotto, guardare attraverso le diversità e raggiungere la conoscenza.

“Mi vedrai su ogni strada, in ogni angolo, nel camion che sorpassa il tuo. Sarò la donna che porta via i vassoi sporchi al chiosco dello zoo. Sarò l’analista di sistemi nell’ufficio in cui un giorno andrai a lavorare. Sarò l’insegnante nell’università popolare dove andrai per imparare l’arte della composizione floreale. Mi passerai davanti al McDonald, mi vedrai da Woolco e mi pesterai un piede all’ippodromo. Aleggerò nel vento e tra le foglie e dimorerò nel terreno sotto ai tuoi piedi. Mi tratterrai persino dentro il tuo corpo ogni volta che respirerai”.

Buona lettura.

 

Rilettura e revisione Luglio 2015 – recensione apparsa precedentemente su ciao.it

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